Le tecniche della nonviolenza – Aldo Capitini

Dal capitolo primo del libro “Le tecniche della nonviolenza” di Aldo Capitini (1967)

Il metodo nonviolento
Nel primo capitolo del libro, Aldo Capitini sostiene che il concetto di nonviolenza espresso in una sola parola ci indica che questo tipo di comportamento non si caratterizza solo dall’assenza di violenza (significato negativo), ma anche da un atteggiamento propositivo, attivo e costruttivo (significato positivo).
Questo modo di vedere la nonviolenza come proposta e non come rifiuto, porta alla necessità, per chi voglia impegnarsi in questo progetto, di avere un metodo per mettere in chiaro quali possano essere le pratiche e le tecniche da adottare per praticarla. Per Capitini tale metodo non dovrebbe però ostacolare e spegnere la creatività e la flessibilità di chi lo mette in atto. Quello che gli interessa è sottolineare il fatto che “la nonviolenza è affidata al continuo impegno pratico, alla creatività, al fare qualche cosa, se non si può fare tutto, purché ogni giorno si faccia un passo in avanti” (p. 14).
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Capitini afferma che quando si parla di nonviolenza si deve prendere in esame anche la grande questione del rapporto tra mezzi e fini. L’originalità della nonviolenza sta nel considerare come imprescindibile il fatto che “il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore” (p. 13). Praticamente tali fini, tali mezzi, cioè non si può pensare di raggiungere un fine pacifico utilizzando i mezzi della guerra. In questo senso l’autore rifiuta l’antico adagio “se vuoi la pace, prepara la guerra” e invita a prendere in considerazione i costi e le conseguenze dei mezzi, troppo spesso sottovalutati. Anche secondo Gandhi, ci ricorda Capitini, i mezzi non sono meramente strumentali ma sono già creativi di per sé e portano al loro interno parte del fine che vogliono realizzare.

Capitini è stato un grande estimatore di Gandhi e ha cercato di diffondere in Italia il metodo che egli aveva messo a punto in India, il Satyagraha. La nonviolenza, ci ricorda, non è una novità della modernità, ma sempre, nel corso della storia, l’uomo ha praticato accanto alla violenza anche la nonviolenza. Dice Humayun Kabir che se è vero che “la competizione ha alcune volte portato avanti la causa del progresso, la cooperazione è stata fondamentale per la sopravvivenza della specie”. Infatti l’uomo, con i suoi deboli mezzi fisici, è riuscito a sopravvivere solo perché aveva la capacità di cooperare e comunicare con i suoi simili.
Uno degli aspetti che Gandhi, e anche Capitini, hanno voluto sottolineare e che ci fa capire come la nonviolenza sia una pratica attiva e positiva, è che caratteristica essenziale del nonviolento è il coraggio. “Proprio come nell’allenamento alla violenza uno deve imparare l’arte di uccidere, così nell’allenamento alla nonviolenza uno deve imparare l’arte di morire” (p. 19). Da qui si comprende come il Satyagraha sia connesso con la sofferenza.
Ma cosa vuol dire esattamente Satyagraha? Il termine è composto dalle parole sanscrite satya, che vuol dire “ciò che è”, e agraha che significa “affermare fortemente”. Il termine nella sua complessità viene tradotto come “forza della verità”. E cosa è la Verità? Per Capitini la Verità è Dio (e non il contrario). Essa deve animare ogni nostra azione e parola e va oltre al semplice non mentire. Nonviolenza e Verità per Capitini sono due facce della stessa medaglia.
Dato che gli esseri umani hanno limiti che rendono difficile il riconoscimento della Verità nella sua pienezza, la nonviolenza e la pratica dell’amore verso i viventi (anche i nemici) sono modi per avvicinarsi ad essa. Per questo, dice Gandhi, “la Verità si difende non facendo soffrire il nostro avversario, ma soffrendo noi stessi” (p. 24). Chi pratica il Satyagraha allora non identifica il peccato con il peccatore ma mantiene verso quest’ultimo il sentimento di amore destinato a tutti gli esseri viventi. Inoltre il satyagrahi tenta tutte le vie per trovare un accordo con l’avversario perché la risoluzione del conflitto non è visto come vittoria per una parte e sconfitta per l’altra, ma come il raggiungimento di una soluzione che faccia piacere ad entrambe le parti.