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Riflessioni sulla nonviolenza.

Sul cambiamento climatico

In questi giorni si sta parlando molto di cambiamento climatico e riscaldamento globale. L’esito della Cop21, la conferenza annuale che si svolge nell’ambito della Convenzione quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici, è stato registrato come un successo di portata storica perché anche i paesi industrializzati, in primis gli US, ma anche Cina e India, hanno accettato dei limiti alle ammissioni di gas serra.
cop 21
I potenti della Terra quindi sono riusciti, dopo anni di tentativi falliti, a trovare un “accordo” sui limiti che, pare, non dobbiamo superare al fine di arrestare il riscaldamento globale (resta il fatto che le previsioni, come le previsioni del tempo per esempio, hanno anche molte probabilità di non realizzarsi in quanto non è possibile prendere in esame tutte la variabili in gioco).
Personalmente sono contenta di questo accordo, se non altro perché c’è stata una presa di coscienza sostanzialmente unanime del fatto che il problema esiste, e questo, sappiamo, è il primo passo per risolvere qualsiasi problema.
Quello che penso però è che c’è una cosa che tutti, anche noi, i “piccoli” della Terra, possiamo fare per dare il nostro contributo e non delegare a chi dirige la barca il compito di decidere sul destino del pianeta. Possiamo iniziare per esempio dedicando un minuto e mezzo a questo video, e continuare riducendo drasticamente, se non siamo in grado di eliminare, il nostro consumo di cibi animali.

Mangiare vegetale fa bene al pianeta, agli animali e alle altre persone.  La Terra è l’unico posto in cui possiamo vivere, non la feriamo ulteriormente. Ieri ho visto il  breve video che posto qui sotto e mi ha emozionato, vedendo la bellezza del nostro pianeta dove vivono esseri così diversi ed affascinati. Mi ha emozionato soprattutto perché lo guardavo con mio figlio di 6 anni e cercavo di fargli capire che tutta questa bellezza potrebbe sparire, e di fatto sta sparendo, se solo non iniziamo a prenderci la responsabilità delle nostre azioni. Ho letto una bella frase che secondo me sintetizza bene la condizione in cui ci troviamo e la voglio condividere con voi.

“You either have to be part of the solution, or you’re going to be part of the problem”.
Eldridge Cleaver – 1968

Tradotto all’incirca recita “O decidi di fare parte della soluzione, oppure sarai parte del problema”.
Facciamo quindi in modo di dedicare più tempo della nostra vita applicandoci per contribuire alla soluzione, invece di continuare a fare parte del problema.

Le tecniche della nonviolenza – Aldo Capitini

Dal capitolo primo del libro “Le tecniche della nonviolenza” di Aldo Capitini (1967)

Il metodo nonviolento
Nel primo capitolo del libro, Aldo Capitini sostiene che il concetto di nonviolenza espresso in una sola parola ci indica che questo tipo di comportamento non si caratterizza solo dall’assenza di violenza (significato negativo), ma anche da un atteggiamento propositivo, attivo e costruttivo (significato positivo).
Questo modo di vedere la nonviolenza come proposta e non come rifiuto, porta alla necessità, per chi voglia impegnarsi in questo progetto, di avere un metodo per mettere in chiaro quali possano essere le pratiche e le tecniche da adottare per praticarla. Per Capitini tale metodo non dovrebbe però ostacolare e spegnere la creatività e la flessibilità di chi lo mette in atto. Quello che gli interessa è sottolineare il fatto che “la nonviolenza è affidata al continuo impegno pratico, alla creatività, al fare qualche cosa, se non si può fare tutto, purché ogni giorno si faccia un passo in avanti” (p. 14).
aldo-Capitini
Capitini afferma che quando si parla di nonviolenza si deve prendere in esame anche la grande questione del rapporto tra mezzi e fini. L’originalità della nonviolenza sta nel considerare come imprescindibile il fatto che “il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore” (p. 13). Praticamente tali fini, tali mezzi, cioè non si può pensare di raggiungere un fine pacifico utilizzando i mezzi della guerra. In questo senso l’autore rifiuta l’antico adagio “se vuoi la pace, prepara la guerra” e invita a prendere in considerazione i costi e le conseguenze dei mezzi, troppo spesso sottovalutati. Anche secondo Gandhi, ci ricorda Capitini, i mezzi non sono meramente strumentali ma sono già creativi di per sé e portano al loro interno parte del fine che vogliono realizzare.

Capitini è stato un grande estimatore di Gandhi e ha cercato di diffondere in Italia il metodo che egli aveva messo a punto in India, il Satyagraha. La nonviolenza, ci ricorda, non è una novità della modernità, ma sempre, nel corso della storia, l’uomo ha praticato accanto alla violenza anche la nonviolenza. Dice Humayun Kabir che se è vero che “la competizione ha alcune volte portato avanti la causa del progresso, la cooperazione è stata fondamentale per la sopravvivenza della specie”. Infatti l’uomo, con i suoi deboli mezzi fisici, è riuscito a sopravvivere solo perché aveva la capacità di cooperare e comunicare con i suoi simili.
Uno degli aspetti che Gandhi, e anche Capitini, hanno voluto sottolineare e che ci fa capire come la nonviolenza sia una pratica attiva e positiva, è che caratteristica essenziale del nonviolento è il coraggio. “Proprio come nell’allenamento alla violenza uno deve imparare l’arte di uccidere, così nell’allenamento alla nonviolenza uno deve imparare l’arte di morire” (p. 19). Da qui si comprende come il Satyagraha sia connesso con la sofferenza.
Ma cosa vuol dire esattamente Satyagraha? Il termine è composto dalle parole sanscrite satya, che vuol dire “ciò che è”, e agraha che significa “affermare fortemente”. Il termine nella sua complessità viene tradotto come “forza della verità”. E cosa è la Verità? Per Capitini la Verità è Dio (e non il contrario). Essa deve animare ogni nostra azione e parola e va oltre al semplice non mentire. Nonviolenza e Verità per Capitini sono due facce della stessa medaglia.
Dato che gli esseri umani hanno limiti che rendono difficile il riconoscimento della Verità nella sua pienezza, la nonviolenza e la pratica dell’amore verso i viventi (anche i nemici) sono modi per avvicinarsi ad essa. Per questo, dice Gandhi, “la Verità si difende non facendo soffrire il nostro avversario, ma soffrendo noi stessi” (p. 24). Chi pratica il Satyagraha allora non identifica il peccato con il peccatore ma mantiene verso quest’ultimo il sentimento di amore destinato a tutti gli esseri viventi. Inoltre il satyagrahi tenta tutte le vie per trovare un accordo con l’avversario perché la risoluzione del conflitto non è visto come vittoria per una parte e sconfitta per l’altra, ma come il raggiungimento di una soluzione che faccia piacere ad entrambe le parti.

P(r)eso di mira

La scorsa settimana sono stata alla presentazione del libro di un mio caro amico, Francesco Baggiani, che tratta il tema della discriminazione ponderale.

Copertina preso di mira

Molti non sanno cosa sia la discriminazione ponderale. Credo sia importate diffondere qualche informazione sull’argomento perché sicuramente ognuno di noi ne è stato vittima o carnefice. Penso che anche questo possa essere un piccolo passo verso l’azione nonviolenta, nel rispetto degli altri e di noi stessi. Preciso che quello che riporterò è ciò che ho ascoltato durante la presentazione, quindi per un’informazione completa sull’argomento vi rimando al libro: P(r)eso di mira – Pregiudizio e discriminazione dell’obesità, di F. Baggiani, Ed. Clichy, 2014.
Ma cos’è la discriminazione ponderale? Con questo termine si indica tutta quella serie di ingiustizie, trattamenti iniqui e vessazioni basate sul peso corporeo della persona, più comunemente osservabile nei confronti di chi sia sovrappeso. Questo tipo di stigmatizzazione esiste nel nostro modo di pensare e nella nostra società perché si è consolidata l’idea che la forma fisica di una persona sia responsabilità della persona stessa. Ciò significa che se sei in sovrappeso la colpa è tua (e questo differenzia la presa in giro dell’obeso da quella basata su altri difetti fisici: la presunta colpevolezza). Da questo ne deriva che  “se insulti un nero sei razzista, se insulti un gay sei omofono, ma se offendi un ciccione… sei simpatico”, poiché si giustifica una qualche forma di punizione nei suoi confronti. Purtroppo ancora non viene abbastanza preso in considerazione l’effetto che questo modo di “scherzare” può avere sulle malcapitate vittime e, fondamentalmente, non si sono messe sul piatto le complesse cause che portano all’obesità. Una varietà di cause che ci farebbero capire come, nella stragrande maggioranza dei casi, non sia vero che le persone in sovrappeso sono tali solo perché pigre, senza forza di volontà e incapaci di dire di no ad un pasticcino. Menomale però che con questo bel libro, che consiglio a tutti di comprare, Francesco sta facendo un po’ di chiarezza.
Secondo gli studi riportati in “P(r)eso di mira”, i meccanismi che controllano il peso non sono così facili da controllare e in alcuni casi è veramente difficile “costringere” il proprio corpo a non raggiungere (o recuperare) un certo peso. Per un gran numero di persone la questione ha una radice genetica che viene aggravata dall’ambiente in cui viviamo (quello tipico delle società occidentali del “benessere”) che viene definito dall’autore “obesogeno”, cioè che favorisce il sovrappeso. Queste cause genetiche, che sono un problema diverso dalle disfunzioni endocrine o sindromiche che portano all’ingrassamento, fanno sì per esempio, che il senso di sazietà, determinato dai geni appunto, vari da persona a persona. Per dare un’immagine chiara, tra due persone che mangiano la stessa cosa, se una delle due continua a mangiare mentre l’altra è sazia, si dà per scontato che questo succeda perché la prima è più ingorda o golosa e non perché abbia dei geni che gli causino, fin dalla nascita, una sensazione di sazietà spostata un po’ più in avanti.
Quindi quello che si tende a pensare è che l’obesità dipenda dalla mancanza di determinazione dell’interessato, senza tenere conto che fame, sazietà, assorbimento, metabolismo non vengono affatto decisi o controllati dalla volontà. Già a questo punto abbiamo un bel po’ di materiale per riflettere su di noi e su come ci sentiamo quando entriamo in contatto con una persona che non rispecchia i canoni di magrezza correnti.

Un altro aspetto importante che è stato affrontato Mercoledì 4 Marzo alla presentazione del libro è quello relativo alle conseguenze di questi atteggiamenti discriminatori e colpevolizzanti. Essi sono particolarmente gravi in età evolutiva (la discriminazione compare fin dalla scuola dell’infanzia) e molto spesso sono la causa, e non l’effetto, di un’obesità più grave. Infatti può accadere che un bambino un po’ più in carne, ma comunque in buona salute, venga preso in giro dai suoi compagni, escluso dal gruppo e dai giochi, vessato. Questo conduce molto spesso ad un abbassamento dell’autostima che, al pari dei parametri ematici, è un importante elemento da tenere dentro i giusti ranghi affinché si parli di salute della persona: spesso infatti si considera unicamente il buon esito delle analisi e delle visite mediche come indicatori di una buona salute, quando invece la serenità psicologica gioca un ruolo altrettanto importante. Infatti se non si ha autostima, la reazione che scatta nella persona è perlopiù quella di rifiuto di sé e del proprio corpo, cosa che può condurre facilmente a ansia, depressione, ma anche ai disturbi del comportamento alimentare.
Il fatto che talvolta i bambini grassottelli evitano gli sport, poi, non dipende quasi mai dal loro essere pigri, ma dal tentativo di cercare modi per allontanarsi dalle occasioni che potrebbero metterli sotto la lente discriminatoria degli altri. Tutto questo porterà ad adottare delle strategie di compensazione che finiscono per portarli proprio lì dove il problema verrà ingrandito, e cioè verso il cibo.

Un altro punto su cui si è soffermato l’autore durante la conferenza è stato quello che riguarda le modalità con le quali la famiglia affronta il tema del peso dei bambini. I genitori, che ovviamente vogliono il bene dei propri figli, credono che il problema sia il peso in eccesso. Per evitare loro il dolore delle prese in giro ed eventuali danni alla salute, cercano tutti i modi per farli dimagrire, adottando anche loro in alcuni casi la presa in giro, perché credono che questo possa farli reagire. In realtà li fanno entrare ancora di più nel tunnel. Quello che mi sembra di aver capito da questo incontro e che mi interessa in quanto mamma, è che forse quando il peso del bambino diventa davvero molto importate non va visto come la causa di un problema, ma come l’effetto di un problema.
Verso la fine della conferenza poi è stato chiesto all’autore quali consigli si possono dare sia ai genitori che agli insegnanti in queste situazioni. Secondo Francesco Baggiani la cosa importate è concentrarsi più sulla salute e sul benessere che sulla forma fisica. Non entriamo nella logica della “norma” e della paura di ciò che è diverso! Quindi, per quanto riguarda il cibo, il punto sarà quello di adottare un’alimentazione sana il cui obiettivo non deve essere dimagrire ma nutrirsi in modo salutare, e questo non solo per chi è obeso, ma per tutta la famiglia. L’attività fisica deve esserci, ma deve dare gioia e serenità, non diventare occasione di scherno e fallimento (esistono sport, come la pallanuoto, dove un po’ di peso in eccesso può divenire addirittura un vantaggio). Per quanto riguarda invece le relazioni dovremmo cercare di lavorare sull’aumento dell’autostima dei bambini, si potrebbe dire sul loro empowerment, rinforzandoli su ciò che sanno fare bene; dovremmo acquisire e dare loro una corretta informazione sulla loro caratteristica corporea, cercando di liberarsi e liberarli da pregiudizi e stereotipi. Infine facilitare lo sviluppo di strategie sociali positive e non oppositive. La riflessione fondamentale rimane comunque su un nodo centrale: far capire agli altri che li amiamo per quello che sono e non per come appaiono.

Ulteriori informazioni:
www.facebook.com/presodimira.libro

NONVIOLENZA SEMPRE

Conflict-photo

Forse qualcuno penserà che l’azione nonviolenta sia confinata nell’ambito della spiritualità e della politica e infatti nel post precedente ho menzionato Gandhi che era sia un leader spirituale (era uno yogi) che politico (diventa presidente del Partito del Congresso nel 1921). In realtà la nonviolenza può e dovrebbe (per non cadere in contraddizione) investire ogni aspetto della vita: dall’alimentazione all’educazione dei bambini, dalla coltivazione della terra allo spostamento, dalla comunicazione verbale a quella non verbale. In ogni momento possiamo mettere in atto strategie di nonviolenza (vedi “Le tecniche della nonviolenza”, Aldo Capitini, 2009, Edizioni dell’Asino), scoprendo sulla nostra pelle quanto tutte le scelte e le azioni diventino interdipendenti e legate le une alle altre. Scegliere, perché si tratta di una scelta consapevole, di impegnarsi nella nonviolenza, significa passare al vaglio non solo il modo con cui agiamo, ma anche il perché ci comportiamo in un certo modo, assumendoci la responsabilità degli atti che compiamo nei confronti degli altri. Per esempio: nostro figlio fa i capricci per vestirsi la mattina. Il modo migliore di agire consiste nell’urlargli qualcosa per farlo smettere? So che la pazienza scappa, a me più volte capita, ma per esperienza mi pare che in realtà alzare la voce non sia più efficace di esprimere lo stesso concetto (“dobbiamo vestirci perché sennò facciamo tardi”) con voce pacata. Qui arriva allora il secondo punto, e cioè il PERCHE’ alziamo la voce. Il motivo è che perdiamo il controllo, niente altro. E ancora: perché perdiamo il controllo? Perché vorremmo che il bambino, si comportasse come noi vogliamo.
Quindi se ci ritroviamo ad urlare come dei pazzi, è perché non troviamo strategie sufficientemente efficaci per comunicare quali sono i nostri bisogni e perché non riusciamo ad accettare che un altro non faccia quello che vogliamo (in questo caso ho utilizzato l’esempio del bambino, ma lo stesso ragionamento può essere applicato a tutte le situazioni di conflitto). È questo il nodo in cui dobbiamo intervenire ed è qui che si pone una domanda che fin da giovani (forse) ci ha assillato: COSA VOGLIAMO? e, aggiungerei, PERCHE’ LO VOGLIAMO? Forse se rispondessimo sinceramente a queste domande, ci renderemmo conto che molte delle volte in cui ci troviamo ad alzare la voce lo facciamo in modo improprio.
Eraclito diceva che il conflitto è la madre di tutte le cose. Questo significa che non ha una valenza totalmente negativa, ma anzi creativa. Quando il conflitto però sfocia nella violenza perde la sua potenzialità e rivela proprio l’assenza di creatività nella gestione delle relazioni (vedi “Affrontare il conflitto, trascendere e trasformare”, J. Galtung, ed. Plus – Pisa University Press, 2008).
Quindi con tutto questo discorso cosa voglio dire? Vorrei dire (anche a me stessa) che dovremmo impegnarci a mantenere alta la nostra creatività tentando di trovare tutte le alternative possibili alla gestione dei conflitti, piccoli o grandi, in cui ci capiterà di essere coinvolti, escludendo ogni forma di violenza, piccola o grande che sia.

Sulla NONVIOLENZA

È da un po’ che ci penso. E da un po’ che mi sembra che parlare di nonviolenza sia sempre più urgente, in un periodo in cui alcune cose si danno per scontate (e quindi considerate inutili) e tutto ciò che necessita di un piccolo sforzo di pura elaborazione mentale, viene considerato perdita di tempo.

fiore

In un periodo in cui la crisi economica e politica sembrano annientare qualsiasi discorso che non abbia una ricaduta sulla praticità, anzi mi correggo, sulla materialità. Quante volte mi sono sentita dire: “Ma cosa ci pensi a fare! Ma queste cose non servono a niente. Tanto non cambia nulla”. Il “tanto non cambia nulla” secondo me è un’arma di distruzione di massa di pensieri, di intelligenza, di possibilità di trovare soluzioni nuove, creative e, magari, anche efficaci.
Perciò in questo spazio vorrei parlare di nonviolenza, perché penso che ciò serva, magari non a trovare un lavoro, ma a trovare una strada da seguire nella vita.
È mia intenzione quindi condividere le teorie e le pratiche della nonviolenza.
Probabilmente se chiedessi in giro qual è la prima persona che viene in mente sentendo parlare di nonviolenza, sentirei ricordare da molti il Mahatma Gandhi.
Gandhi è stato un grande leader spirituale e politico, che ha guidato la più grande rivoluzione non-violenta contro un regime di occupazione. Il suo pensiero ha influenzato intere generazioni in tutto il mondo, ma soprattutto in Occidente. In tale porzione della terra infatti, il messaggio di Gandhi ha goduto del fatto che le società europee e statunitensi si stavano preparando ad una nuova fase, quella in cui, all’indomani della Seconda guerra mondiale, si cercavano nuovi modi di convivenza e metodi inediti per gestire i conflitti tra gli stati e tra le parti sociali.
A volte mi chiedo: ma se Gandhi fosse nato cento anni prima, avrebbe avuto lo stesso impatto sul pensiero globale? E cosa sarebbe successo, come chiedeva provocatoriamente il nostro professore di Relazioni Internazionali, se invece di confrontarsi con l’Imperatore britannico, si fosse trovato ad affrontare il Furher? A queste domande non so quanto sia utile cercare di dare una risposta e d’altra parte però, non credo possano sminuire la portata dell’azione del Mahatma. Quello che secondo me hanno però di importante è che queste domande ci fanno capire che ci sono certe condizioni che possono favorire o sfavorire l’emersione di un messaggio. Questo vale sia per i messaggi positivi che per quelli negativi, e per questo, tra gli scopi di questi interventi, c’è anche quello di individuare, quando possibile, le condizioni che ci possono aiutare ad adottare un atteggiamento nonviolento.
Infine: perché scrivere nonviolenza tutto attaccato e non separando la negazione dal sostantivo “violenza”? Questa scelta, che è stata fatta per la prima volta negli anni ’50 da Aldo Capitini, padre della nonviolenza in Italia, deriva dal fatto che il neologismo racchiude in sé una connotazione positiva e propositiva. Non si tratta soltanto di eliminare la violenza, ma anche di promuovere una pratica di attiva costruzione della pace. È come se oltre a volere togliere qualcosa, ne volessimo contemporaneamente introdurre un’altra.
E quindi l’invito che faccio a me stessa e a chi vorrà seguirmi è domandarsi: cosa voglio aggiungere a questo mondo?