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NONVIOLENZA SEMPRE

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Forse qualcuno penserà che l’azione nonviolenta sia confinata nell’ambito della spiritualità e della politica e infatti nel post precedente ho menzionato Gandhi che era sia un leader spirituale (era uno yogi) che politico (diventa presidente del Partito del Congresso nel 1921). In realtà la nonviolenza può e dovrebbe (per non cadere in contraddizione) investire ogni aspetto della vita: dall’alimentazione all’educazione dei bambini, dalla coltivazione della terra allo spostamento, dalla comunicazione verbale a quella non verbale. In ogni momento possiamo mettere in atto strategie di nonviolenza (vedi “Le tecniche della nonviolenza”, Aldo Capitini, 2009, Edizioni dell’Asino), scoprendo sulla nostra pelle quanto tutte le scelte e le azioni diventino interdipendenti e legate le une alle altre. Scegliere, perché si tratta di una scelta consapevole, di impegnarsi nella nonviolenza, significa passare al vaglio non solo il modo con cui agiamo, ma anche il perché ci comportiamo in un certo modo, assumendoci la responsabilità degli atti che compiamo nei confronti degli altri. Per esempio: nostro figlio fa i capricci per vestirsi la mattina. Il modo migliore di agire consiste nell’urlargli qualcosa per farlo smettere? So che la pazienza scappa, a me più volte capita, ma per esperienza mi pare che in realtà alzare la voce non sia più efficace di esprimere lo stesso concetto (“dobbiamo vestirci perché sennò facciamo tardi”) con voce pacata. Qui arriva allora il secondo punto, e cioè il PERCHE’ alziamo la voce. Il motivo è che perdiamo il controllo, niente altro. E ancora: perché perdiamo il controllo? Perché vorremmo che il bambino, si comportasse come noi vogliamo.
Quindi se ci ritroviamo ad urlare come dei pazzi, è perché non troviamo strategie sufficientemente efficaci per comunicare quali sono i nostri bisogni e perché non riusciamo ad accettare che un altro non faccia quello che vogliamo (in questo caso ho utilizzato l’esempio del bambino, ma lo stesso ragionamento può essere applicato a tutte le situazioni di conflitto). È questo il nodo in cui dobbiamo intervenire ed è qui che si pone una domanda che fin da giovani (forse) ci ha assillato: COSA VOGLIAMO? e, aggiungerei, PERCHE’ LO VOGLIAMO? Forse se rispondessimo sinceramente a queste domande, ci renderemmo conto che molte delle volte in cui ci troviamo ad alzare la voce lo facciamo in modo improprio.
Eraclito diceva che il conflitto è la madre di tutte le cose. Questo significa che non ha una valenza totalmente negativa, ma anzi creativa. Quando il conflitto però sfocia nella violenza perde la sua potenzialità e rivela proprio l’assenza di creatività nella gestione delle relazioni (vedi “Affrontare il conflitto, trascendere e trasformare”, J. Galtung, ed. Plus – Pisa University Press, 2008).
Quindi con tutto questo discorso cosa voglio dire? Vorrei dire (anche a me stessa) che dovremmo impegnarci a mantenere alta la nostra creatività tentando di trovare tutte le alternative possibili alla gestione dei conflitti, piccoli o grandi, in cui ci capiterà di essere coinvolti, escludendo ogni forma di violenza, piccola o grande che sia.

Sulla NONVIOLENZA

È da un po’ che ci penso. E da un po’ che mi sembra che parlare di nonviolenza sia sempre più urgente, in un periodo in cui alcune cose si danno per scontate (e quindi considerate inutili) e tutto ciò che necessita di un piccolo sforzo di pura elaborazione mentale, viene considerato perdita di tempo.

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In un periodo in cui la crisi economica e politica sembrano annientare qualsiasi discorso che non abbia una ricaduta sulla praticità, anzi mi correggo, sulla materialità. Quante volte mi sono sentita dire: “Ma cosa ci pensi a fare! Ma queste cose non servono a niente. Tanto non cambia nulla”. Il “tanto non cambia nulla” secondo me è un’arma di distruzione di massa di pensieri, di intelligenza, di possibilità di trovare soluzioni nuove, creative e, magari, anche efficaci.
Perciò in questo spazio vorrei parlare di nonviolenza, perché penso che ciò serva, magari non a trovare un lavoro, ma a trovare una strada da seguire nella vita.
È mia intenzione quindi condividere le teorie e le pratiche della nonviolenza.
Probabilmente se chiedessi in giro qual è la prima persona che viene in mente sentendo parlare di nonviolenza, sentirei ricordare da molti il Mahatma Gandhi.
Gandhi è stato un grande leader spirituale e politico, che ha guidato la più grande rivoluzione non-violenta contro un regime di occupazione. Il suo pensiero ha influenzato intere generazioni in tutto il mondo, ma soprattutto in Occidente. In tale porzione della terra infatti, il messaggio di Gandhi ha goduto del fatto che le società europee e statunitensi si stavano preparando ad una nuova fase, quella in cui, all’indomani della Seconda guerra mondiale, si cercavano nuovi modi di convivenza e metodi inediti per gestire i conflitti tra gli stati e tra le parti sociali.
A volte mi chiedo: ma se Gandhi fosse nato cento anni prima, avrebbe avuto lo stesso impatto sul pensiero globale? E cosa sarebbe successo, come chiedeva provocatoriamente il nostro professore di Relazioni Internazionali, se invece di confrontarsi con l’Imperatore britannico, si fosse trovato ad affrontare il Furher? A queste domande non so quanto sia utile cercare di dare una risposta e d’altra parte però, non credo possano sminuire la portata dell’azione del Mahatma. Quello che secondo me hanno però di importante è che queste domande ci fanno capire che ci sono certe condizioni che possono favorire o sfavorire l’emersione di un messaggio. Questo vale sia per i messaggi positivi che per quelli negativi, e per questo, tra gli scopi di questi interventi, c’è anche quello di individuare, quando possibile, le condizioni che ci possono aiutare ad adottare un atteggiamento nonviolento.
Infine: perché scrivere nonviolenza tutto attaccato e non separando la negazione dal sostantivo “violenza”? Questa scelta, che è stata fatta per la prima volta negli anni ’50 da Aldo Capitini, padre della nonviolenza in Italia, deriva dal fatto che il neologismo racchiude in sé una connotazione positiva e propositiva. Non si tratta soltanto di eliminare la violenza, ma anche di promuovere una pratica di attiva costruzione della pace. È come se oltre a volere togliere qualcosa, ne volessimo contemporaneamente introdurre un’altra.
E quindi l’invito che faccio a me stessa e a chi vorrà seguirmi è domandarsi: cosa voglio aggiungere a questo mondo?